07|07|2023 Preferirei essere mangiato
by Alessandro Cugola
Esposizione
07|07|2023 Preferirei essere mangiato
by Alessandro Cugola
Esposizione
Un capannone dismesso non è solo il prodotto di un sistema sociale ed economico in crisi, è anche un vero e proprio artefatto culturale che identifica, in maniera inequivocabile la città diffusa veneta. Un paesaggio urbanizzato e senza soluzione di discontinuità che, sviluppandosi lungo le principali infrastrutture viarie, è cresciuto in maniera disorganica attraverso l’accumulo di edifici e d’usi. Allora come oggi, in favore di una crescita economica, si sacrifica terra, risorse naturali, manodopera, capitali, tempo. Un capannone inutilizzato è una spesa, nonché un inutile spreco risorse.
Il progetto di Alessandro Cugola stravolge il programma prestabilito, costruendo un ponte semantico tra il capannone dismesso di Villa Filanda Antonini ed il concetto di “expenditure” (spesa) formulato dallo scrittore e filosofo francese Georges Bataille. Bataille offre lo spunto narrativo per una installazione in tre atti che, opponendosi alla logica del recupero architettonico, definisce una liturgia di simboli e parole dove l’oggetto del sacrificio è l’architettura stessa.
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Preferirei essere mangiato di Alessandro Cugola
Bataille sosteneva che le società dovrebbero andare oltre una prospettiva esclusivamente utilitaristica, accogliendo una comprensione dell’eccesso, dello spreco e degli aspetti non utilitaristici dell’esistenza umana. In quest’ottica, il dono, scrive, “deve essere considerato come una perdita e quindi come una distruzione parziale, poiché il desiderio di distruggere viene in parte trasferito a chi lo riceve”. Questa definizione diventa utile per leggere le escrescenze di spazi abbandonati e dismessi che il territorio sembra aver accumulato: non focalizzandosi sul loro riuso e conversione, ma piuttosto sull’idea di perdita e sacrificio del suolo stesso e sul tipo di spreco che ha creato. Non con la retorica dell’occasione mancata, del ricordo di un passato di successo, piuttosto nell’ottica di distruzione nei confronti del sistema che questi vuoti rappresentano.
In questo senso, l’atto di perdita fine a sé stesso diventa fecondo, proprio perché capace di mettere in discussione le modalità e i processi di produzione e di definizione del “valore”. In un sistema che ha costantemente associato perdita a guadagno, il territorio è stato barattato in nome di qualcos’altro: il susseguirsi di diversi sistemi produttivi hanno eroso e impoverito il suolo, il “vuoto” apparentemente illimitato, privatizzato in cambio di crescita e sviluppo; ora é l’edificio, la rovina, che rimane immobile, “sprecata” e che si dovrebbe donare all’incertezza: un’impronta di cemento come impulso di immortalità.
Le nozioni di spesa e di sacrificio si legano unicamente a quelle di perdita e di spreco come fine a sé stesso. Ed é il momento transitorio che questo legame definisce che diventa virtuoso, perché contribuisce a far riconoscere il soggetto, ‘il corpo’ come passivo o placato dagli effetti dell’altro, del contesto architettonico o spaziale in cui si trova, rivelando la rete di relazioni e di legami con il sistema in cui esso si trova e tramite la quale si auto-definisce. L’architettura organizza lo spazio attraverso il quale i corpi si muovono. Viceversa, i corpi percepiscono le strutture architettoniche come statiche, mentre si muovono nello spazio attraverso il tempo.
L’architettura, infatti, codifica e cristallizza i processi che l’hanno generata in primo luogo, e fatica ad adattarsi alle trasformazioni, continuano quindi a plasmare il corpo, che nega il suo spirito radicale e distruttivo. Mentre il ‘vuoto’ si diffonde sul territorio, la nozione di “sacrificio” ci permette di sovvertire la situazione attuale, in nome del corpo artefice nella definizione e percezione dello spazio. Questo capovolgimento di prospettiva ci permette di rivelare la fragilità dell’architettura, poiché al passare del tempo e delle condizioni che l’hanno generata i codici, le regole e le sue liturgie smettono di “avere senso”, lasciando dietro di sé un’enorme quantità di vuoto e spazi abbandonati a testimonianza.
Si dovranno quindi “sacrificare” questi avanzi e, così facendo, definirli per quello che sono: resti. Non come inutili da un punto di vista produttivo, semplicemente come vuoti da metabolizzare e liberare. Vorrei leggere questo atto di distruzione come il loro sacrificio, un’azione capace di sradicare i residui delle relazioni spaziali e dell’ordine sociale che li governano, distruggendo non l’architettura in sé ma l’organizzazione architettonica dei corpi nello spazio, rendendo lo spazio, in cambio, informe.
Lo spazio di questa fabbrica sarà il banco di prova di questo sacrificio. Ed è negli elementi più archetipici che tale narrazione si svolgerà: il falò, il corpo, il palinsesto.